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Tommaso de Brabant intervista Walter Jeder

Ho incontrato Walter Jeder alla fine di settembre dello scorso anno: presso niente meno che le Edizioni Ritter di Marco Batarra stava per presentare, assieme a Marco Valle, il libro di Nazareno Mollicone L’aquila e la fiamma – Storia dell’anima nazional-popolare del MSI. Mi ha colpito subito per la spropositata gentilezza che, senza la minima affettazione, rivolge all’interlocutore.
Nei mesi successivi abbiamo avuto contatti sporadici, con mio dispiacere, perché avrei frequentato molto volentieri un signore dal comportamento tanto gradevole e dall’esperienza monumentale. Ho così approfittato dell’appello lanciato da Vanessa Combattelli, co-fondatrice del sito giovaniadestra.it, per raccogliere articoli e testimonianze sugli Anni di Piombo: le ho proposto un’intervista a Jeder, e la direttrice ha accettato con entusiasmo. Quando ho chiesto al caro Walter se fosse disposto, ha reagito con grandissima cortesia… è stato lui stesso a telefonarmi per fissare un appuntamento.
Mi ha accolto in un’elegantissima veranda e mi ha riversato addosso una tale densità narrativa che dopo tre ore avevo imparato tantissimo, ma l’intervista non era ancora cominciata. Siamo così rimasti d’accordo perché gli inviassi una mail con delle domande. Nonostante nel frattempo si sia trovato in una situazione di grande sofferenza, Walter ha tenuto fede al suo impegno, inviandomi uno scritto di qualità e quantità a dir poco considerevoli.
Sono onorato di offrire a Giovani a Destra e Destra.it questa intervista a Walter Pancini alias Jeder, grande personalità politica e gentiluomo.

 

T: Quali pensi siano stati il valore e la forza della musica d’area?

 

W: Forse è un po’ riduttivo, oggi, chiamarla “musica di area”.
Basta affacciarsi sulla straordinaria estensione dell’archivio coraggiosamente messo insieme dalla fondazione Lorien per rendersi conto di quanto la nostra cosiddetta “musica alternativa” sia tracimata fuori dai suoi confini originali e, in forme nuove (rock identitario, canzoni “Oi”, eccetera), continui a dilagare, in Italia e altrove, con decine di gruppi, centinaia di composizioni e concerti.
D’altra parte, capisco come questa domanda, rivolta a me, assuma un senso diverso.

 

Negli anni ‘70 la canzone politica servì a testimoniare ad una Italia ostile la vitalità e la creatività dei nostri giovani. Fu un modo di rispondere, con delle autoproduzioni rozze ma espressive, all’industria discografica ufficiale, che propinava solo facile evasione commerciale, e ai compagni cantautori, che raccoglievano soldi e notorietà con il loro impegno conformista, ecumenico e pacifondaio, sempre osservanti del luogocomunismo che imperava, asfissiante, a scuola, in parrocchia e nelle cellule rosse.

 

Mentre il mondo, intorno, impazziva, sentivamo il bisogno di dare voce alla ribellione e alle speranze della nostra generazione: raccontare la nostra quotidiana fatica di essere contro.
Cominciarono, spontaneamente, a circolare musiche e parole che mettevano in scena storie di vita comune: di amore, di sfida, a volte di morte. Alcune di quelle canzoni diventarono la colonna sonora della nostra impari lotta.

 

Quella cultura sotterranea non trovò ospitalità tra la Destra che contava, a cominciare dai notabili del partito, se non per eccezioni (Rauti). Riuscì a imporsi solo grazie all’avvento delle prime radio libere e all’invenzione “rivoluzionaria” dei campi Hobbit. Le prime l’amplificarono trasportandola via etere, i secondi la misero, sia pure come bersaglio, nel cono di luce della cronaca dei giornaloni di regime.
Com’erano le nostre canzoni? Francamente le prime produzioni erano piuttosto ingenue ed approssimative, anche per i pochi mezzi a disposizione, ma ognuna di esse stillava verità, emozione, tensione ideale. Valore non formale, ma carico di energia.

 

Io, che fui il “traghettatore” di quell’esperienza, dagli anni ’60 al decennio che seguì (mi precedettero soltanto Pino Tosca e, in parte, Leo Valeriano) resto convinto che – pur nella modestia nei suoi limiti – quell’esperienza sprigionò una forza straordinaria. Nutrì l’orgoglio dei militanti nei momenti più bui. Fu un antidoto alla resa e alla disperazione per tutto un elettorato sbigottito dai tempi da lupi che incombevano, poiché riuscì a parlare, meglio di mille comizi, con la semplicità di qualche strofa cantata, a un mondo più vasto. Arrivò al cuore della gente comune, contribuendo a creare consenso alle nostre idee. Servì a svelenire l’atmosfera tossica degli “anni di piombo” coniugando la durezza della lotta con parole di amore e di speranza. Cercò di creare anche spazi di ironia per restituire ad una opinione pubblica, cupa e chiusa in casa, la voglia di sorridere e di entusiasmarsi.

 

E oggi? I molti gruppi che sono sorti intorno alle giovani comunità militanti sono la prova che i semi di quell’esperienza non sono caduti fuori dal solco. Hanno prodotto alberi e foglie. E i loro frutti mantengono ancora intatto tutto quel misterioso potere di aggregazione che continua a nutrire i ragazzi del nuovo millennio.

 

T: Consideri possibile un parallelo fra i contrasti che vi sono stati tra il Fronte della Gioventù e l’MSI, e il divario culturale e d’intraprendenza che tuttora vi è tra Gioventù Nazionale e Fratelli d’Italia?

 

W: Non fosse altro che per l’anagrafe (!) non frequento Gioventù Nazionale e ne so molto poco.
Seguo quel minimo che rimbalza sui giornali e sul Web. Conoscendo i giovani (e non essendomi dimenticato di esserlo stato) mi capita, perciò, di cogliere qualche segnale di sacrosanta intolleranza di quest’organizzazione giovanile rispetto a … i “Fratelli” più grandi che reggono le sorti del partito di riferimento. I quali – a meno che non siano stati colti da una preoccupante crisi di amnesia, con annessa rimozione dei loro anni migliori – non dovranno più di tanto scandalizzarsene.
Per parte mia, che non ho delega alcuna di politica attiva, non posso che rallegrarmene. Polemiche di questo tipo sono segni di vitalità che il nostro ambiente ha espresso in modo ricorrente in tutta la sua storia, dall’immediato dopoguerra ad oggi. Segnali di intolleranza alle arti del compromesso che da sempre (fortunatamente) distinguono i più giovani. E in particolare quelli della nostra “razza”. Poco conta se si tratti di espressioni di estremismo o di candore, perché proprio queste dissonanze sono il sale della politica e hanno fatto germinare idee movimenti che sono stati capaci di marcare in modo significativo la storia del “neofascismo” italiano, indicando nuovi percorsi meno convenzionali e meno subalterni.
Eh sì, perché, anche nel nostro piccolo, la storia si ripete per cicli vichiani.
Per averne contezza non occorre neppure sfogliare i molti libri e le puntuali cronologie, pubblicate negli ultimi anni, che hanno ripercorso la storia del Movimento Sociale Italiano. Basta prendere pigramente visione della pagina di Wikipedia dedicata al Fronte della Gioventù. Vi si legge che “sebbene ufficialmente correlato con il MSI, il fronte della gioventù costituì un laboratorio politico autonomo con un dibattito interno sempre molto acceso; testimonianza di ciò furono le numerose volte in cui fu criticata la linea politica del movimento sociale italiano. I suoi iscritti inoltre non erano automaticamente iscritti al partito. L’orientamento politico del FdG è stato definito post fascista o di destra radicale, mentre lo stesso si autodefiniva nazional-rivoluzionario. Da altri è stato considerato genericamente neofascista.”
Il bignamino internettiano, poche righe dopo, ci ricorda, puntuale, la stagione dei campi Hobbit, ispirata dall’ambiente giovanile rautiano, e la fuoriuscita dell’organizzazione dalla “destra istituzionale”.
Sic est.
Perciò, sembra davvero poca cosa qualche singulto di intolleranza di oggigiorno rispetto agli scontri che lacerarono il Fdg nel 1977 quando Almirante, a dispetto delle scelte degli iscritti, impose la segreteria di Gianfranco Fini.
Riguardo alla linea attuale di “Gioventù Nazionale” non posso che apprezzare il recente richiamo dell’attuale leader, Fabio Roscani, alle tappe simboliche dell’identità europea.
Mi piacerebbe essere certo che Roscani ed i suoi aderenti siano consapevoli di doversi confrontare, presto, con una fatica meno lirica di quella offerta alla platea di Atreju. La necessità di formare un programma che, uscendo dalla semplificazione dello slogan “rifiutare l’Europa dello spread e dei burocrati”, sciolga il nodo, strategico prima che linguistico, di dare una definizione stringente alle accezioni di “sovranismo” e di “populismo”. Il che vorrà dire affrontare, di petto, anche temi meno suggestivi, ma che non possono essere aggirati, come l’incombente ricatto delle politiche economiche europee, individuando le possibili vie d’uscita.
La soluzione sarà quella di coniugare conservatori, liberali, sovranisti e destra sociale “in un grande contenitore plurale” come ha indicato, proprio chiudendo Atreju, Giorgia Meloni?
Forse ai giovani, per combattere battaglie raccolti intorno a parole d’ordine ineludibili, servono linee più nette: tanto chiare da non poter essere scomposte in una sciarada enigmistica.

 

T: Un rimprovero che spesso emerge negli esami di coscienza che si pongono i reduci degli anni di piombo riguarda il vittimismo. Non ritieni che la forte, diffusa e perdurante emarginazione subita dai militanti “neri” invece lo giustifichi?


W: Paradosso vuole che la polemica intorno al vittimismo e all’auto giustificazione dei reduci degli “anni di piombo” sia stata innescata proprio dagli ex protagonisti delle organizzazioni terroristiche comuniste a partire dalle dichiarazioni di Barbara Balzarani. Non risulta che niente di simile sia venuto dall’area del movimentismo armato “nero”, arroccato nei suoi ergastoli in doloroso silenzio.
Eppure, lasciando per un attimo a lato le casistiche estreme degli appartenenti alle formazioni che fecero una scelta paramilitare (con tutto il carico di sangue che ne seguì), un dibattito serio avrebbe potuto essere tentato, trasversalmente, per rileggere controluce le motivazioni che spinsero una consistente massa di giovani a scegliere di lottare contro il sistema. Una terapia di gruppo tra vecchi nemici non per assolvere, ma per capire. Non tanto per fare sociologia spicciola sulle pulsioni della rivolta, ma per cercare d’individuare – con il necessario coraggio intellettuale – quali furono, se vi furono, i burattinai e i pupi, quale fosse il contesto internazionale, a chi giovò quel “massacro” e chi ne pagò il prezzo.
Operazione impossibile, nata morta, se la vulgata “antifa” vuole ancora una volta sbrigarsela con la demonizzazione dei cattivissimi antagonisti “neri” e la giustificazione (se non l’assoluzione) dei compagni, loro sodali, che hanno “sbagliato”, sì, ma nel nobile intento di rispondere ad un imminente attacco alla democrazia.
Al contrario, il pesante tributo di sangue, pagato dai giovani “cuori neri” in quegli anni maledetti, largamente giustificherebbe un riconoscimento condiviso, storico e civile. Ben oltre i riti che cercano di tenere viva la memoria bruciante di chi non ebbe giustizia e che pure, ancor oggi, vengono osteggiati, vietati, criminalizzati.
I nostri giovani furono certamente vittime. Chi non pagò il prezzo estremo della vita e della spranga, fu emarginato nella scuola e nel lavoro.
Di fronte alle prove di dignità offerte della nostra comunità, fa ribollire il sangue di sdegno vedere come le petizioni di revisione della storia degli anni di piombo venga avanzata, a senso unico, dagli appartenenti alla lobby dei rossi “che si son messi a posto”, incardinati nell’informazione dei giornali borghesi e dei blog di moda. I soliti noti che se la cantano e se la suonano, tra salotti, banche e ospitate televisive, nella compagnia di giro della cultura che conta.

 

T: Siamo nel 50ennale del ’68 e di Valle Giulia. Pensi che le scelte della dirigenza missina abbiano determinata/acuita la marginalizzazione dei ragazzi di destra?

 

W: Molto è stato scritto sull’ ”anomalia” di Valle Giulia, tre ore di battaglia davanti alla facoltà di Architettura di Roma tra studenti e polizia, il 1° marzo del 1968, che vide protagonisti giovani di destra e di sinistra, uniti in una inconsueta alleanza “generazionale”.

 

Al ’68 e alle sue turbolenze, una sfida inedita che ha attraversato anche le principali organizzazioni dei giovani nazional-rivoluzionari, tra tanta saggistica, più modestamente, io ho dedicato una canzone che è confluita, vent’anni dopo, nella raccolta del CD “Alzo Zero”. Basta ascoltarla per cogliere un rimpianto acre per quella confusa stagione di entusiasmi e di libertà che poteva cambiare la storia del nostro paese e che finì per essere ricondotta al copione, voluto dal potere, degli “opposti estremismi”: con la simmetrica decisione del PCI, da una parte, e del MSI dall’altra (che il 16 marzo mandò i suoi “volontari” a ripulire l’università) di richiamare nei ranghi dell’ortodossia le rispettive componenti giovanili.

 

Gli anni sanguinosi e bui che seguirono sono la prova del fallimento di una “rivoluzione culturale” impossibile e marcano le responsabilità di chi, per calcolo cinico o malintesa fedeltà ai ruoli assegnati da un dopoguerra scritto a Yalta, fece abortire sul nascere ogni possibilità di dialogo che uscisse fuori dallo schema fascismo/antifascismo.

 

La componente rautiana provò più volte – senza successo – negli anni successivi, la strategia di uno “sfondamento a sinistra” affidandosi alla suggestione di idee-forza da sempre nostre (come l’anti-atlantismo e l’ecologia, ad esempio) nella totale incomprensione del partito e dell’elettorato moderato.

 

T: Finora, per convenzione, ho utilizzata la definizione “di destra”. Pensi che sia una dicitura legittima? Rauti dichiarò che Fiuggi fu la prova che non possa esistere un fascismo di destra. Tenendo presente che vi fu chi rimarcò, col termine neofascismo, le differenze tra il fascismo del ’19 e l’area “nera” degli anni ’70, confermi che Ordine Nuovo non fosse un movimento di destra?

 

W: Il Fascismo c’entra con la Destra come i famosi cavoli a merenda!
Basta ripercorrere la vita e rileggere gli scritti di Mussolini per rendersene immediatamente conto. Il fascismo non fu né di destra né di sinistra. Con una intuizione davvero rivoluzionaria, riuscì a superare entrambe queste ottocentesche collocazioni parlamentaristiche, integrando la tutela della proprietà privata e della libertà d’impresa (proprie della destra) con le astratte vocazioni di giustizia sociale (proprie della sinistra). E andando ben oltre.

 

Lo Stato Sociale Corporativo, infatti, si presentò come l’idea vincente del secolo nuovo indicando la possibilità di percorrere una “terza via” tra capitalismo e socialismo. Un disegno affascinante solo in parte realizzato, imprigionato, come fu, dalla camicia di Nesso dei compromessi imposti dalla diarchia Re/Duce e dall’incombere della guerra. Soltanto nei seicento giorni della RSI, la Socializzazione delle imprese e la partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione vennero incardinati, in modo netto, nei dieci punti fondamentali dello Stato.

 

Il MSI, che pure si proclamò da subito erede di quell’ esperienza, dovette presto fare i conti con la Legge Scelba del ’52 e con il mutato tran tran della nuova borghesia moderata. In nome di un anticomunismo, necessitato dallo scenario internazionale, la parola Destra riprese forza di identità fino ad essere inscritta, nel ’73, accanto alla fiamma tricolore nel simbolo del partito, ribattezzato Destra Nazionale.

 

Questa mutazione genetica si completò a Fiuggi quando quelli che erano stati i “neofascisti” sposarono ciò che restava dell’antico patriottismo e della socialità al modello americano della destra economica, globalizzata, “liberale”. Il massimo che AN riuscirà ad offrire, prima di dissolversi nel partito di Berlusconi, sarà la formuletta dell’ “economia sociale di mercato”, qualcosa (per dirla con Ruggiero) che somiglia molto ad una specie di capitalismo caritatevole.

 

Svolto questo sintetico excursus storico, mi pare che diventi pleonastico domandarsi se Ordine Nuovo – che oltretutto era maniacalmente attento alla weltanschauung evoliana – fosse un movimento di destra: certo che non lo fu! E anche per questo la pagò cara.

 

T: I ragazzi degli anni di piombo provavano venerazione per i reduci della RSI, e alcuni fra loro hanno fatto di tutto per essere all’altezza del cambio di testimone. Tenendo conto di quanto la lotta politica sia meno tragica oggi rispetto ad allora, vedi nei militanti di oggi una continuità con la tua generazione?

 

W: La carta d’identità associa, ahimè, impietosamente la mia generazione più agli anni ’60 che a quelli di piombo (che pure abbiamo nostro malgrado attraversati). Forse per questo, come mi capitò di confessare in un articolo per “Intervento”, l’ultimo periodico diretto da Tomaso Staiti, le ricorrenti polemiche sull’ “onda nera” richiamano alla mia memoria certi ingenui rituali della mia giovinezza.

 

A quel tempo, i nostri libri maledetti, epurati dalle biblioteche, li trovavi ravanando sulle bancarelle dell’usato e le camicie nere non erano moda fighetta per vitaioli. Introvabili. Poco male: noi ragazzi rimediavamo bollendo in un pentolone, sul greto del fiume, innocenti camicie kaki, che sarebbero diventate nere che più nere non si può con l’impiego della tintura “Nero d’Inferno”. Le avremmo indossate, fieri della provocazione, affrontando – faccia a faccia – una parata partigiana o scompigliando qualche assise di democratici restauratori. Finiva tutto in una scazzottata. Seguiva cellulare, identificazione, duro verbale della Squadra Politica (la Digos del dopoguerra). A chi andava peggio toccava qualche rattoppo al pronto soccorso. Per tutti ostracismo delle ragazze, della scuola, della famiglia. Pagavamo un prezzo salato per qualcosa che, nella prospettiva del tempo – capace di spegnere i ricordi bollenti nella logica della maturità – potrebbe parere una goliardata.

 

Ma non era tutto folklore. La nostra camicia nera voleva significare ai rabbiosi epigoni di Caino, che la mattanza delle “radiose giornate” non aveva cancellato la meravigliosa Eresia. Che il testimone era stato passato.
Nella nostra giovane età non ci rendevamo neppure conto che le rovine della guerra erano ancora calde e il sangue della guerra civile appena rappreso. Erano trascorsi appena una quindicina d’ anni. Alcuni dei nostri antagonisti aveva ancora quel sangue incrostato nelle mani. Non immaginavamo neppure quanto. Ci sarebbe stato bisogno, a fine secolo, della penna di un antifascista atipico come Giampaolo Pansa perché la vasta opinione pubblica, che non leggeva Pisanò, fosse informata di quanto (e quanto innocente) fosse stato “il sangue dei vinti”.

 

A volte, fatico a capire (non senza provare ammirazione per questa loro ribellione nell’epoca del disimpegno) quali miti, quali emozioni, quali speranze possano animare, oggi, un ragazzo che sceglie di fare politica. Ma ricordo bene le nostre motivazioni.

 

Non si trattava soltanto di rialzare, romanticamente, la bandiera umiliata e tradita dell’identità nazionale. Dovevamo combattere – con le armi dell’intelligenza e della provocazione, della propaganda e della testimonianza, dello stile e, quando c’era, del fascino personale – la fase postuma di una guerra che non si era mai conclusa con una resa. Il conflitto dell’Europa contro i mercanti d’occidente e l’imperialismo sovietico continuava, in uno scenario falso, edulcorato da papi buoni e sorrisi kennediani.
Non potevamo accettare che a Yalta fosse stato deciso, per sempre, il destino dei popoli. Adriano Romualdi ci guidava alla scoperta di Drieu La Rochelle e ci parlava del Mito dell’Europa. Ne profetizzava la fine: “si spegnerà lentamente nel benessere e nella democrazia finchè, nell’ora immancabile del giudizio storico finale, sarà travolta dalla rivolta mondiale dei popoli di colore guidati da una Cina inesorabile”.

 

Per noi, iniziava un percorso ideale verso tante diverse Patrie, da Brest all’Elbruz, da Narvik a Creta. Cercavamo d’incontrare gli altri giovani europei e, intanto, lasciavamo l’ascia bipenne per la croce celtica. E ci sembrava di alzare al cielo l’anima stessa della nostra vecchia Europa. Quel simbolo avrebbe attraversato un vasto arcipelago di progetti diversi, segnando pagine di esaltazione e di lutto.

 

Attorno imperversava l’italietta utilitaria e meschina, furba e corruttrice dei personaggi di Alberto Sordi. Mentre noi ci sentivamo eredi, sia pur inadeguati, di un titanico conflitto: quello dell’oro contro il sangue. Qualche anno più tardi, con Beppe Niccolai, scoprendo la fronda fascista di Berto Ricci, avremmo capito che politica era passione civile, “quella cosa per cui uno si occupa dei guai degli altri come se fossero i propri. E per quei guai è disposto a dare la vita”.
Noi ragazzini (la “gioventù nazionale”) ci limitavamo a saltare cinema e colazione e mettevamo da parte i soldini per una risma di carta da ciclostile.

 

La biblioteca si allungava. Le letture degli autori “scomunicati” ci schiudevano cieli nuovi. Inutilmente i prof ci vomitavano addosso, dalla cattedra, il copione della barbarie fascista. Più ci escludevano, più eravamo fieri della nostra solitudine.
L’emarginazione non ci lasciava il tempo di dare fiato al sospetto che la parodia delle nostre camicie nere potesse, alle lunghe, servire – nel teatrino della politica italiana – al disegno normalizzatore del Potere. Neri contro Rossi. Con la benedizione di Washington, dove alcuni alti dirigenti si recavano in pellegrinaggio.
Noi, “i figli del Sole”, ci sentivamo esentati dal dubbio. La scoperta di Evola ci dava la forza, immensa e inaspettata, di respingere le lusinghe del mondo moderno, la speranza di restare in piedi tra le rovine, lezioni di aristocratica immunità per sopravvivere al nostro tempo bastardo cavalcando la tigre. Giovanni Gentile non ci bastava più. Leggevamo di tutto. Da Pareto a Sorel, da Spengler a Maurras; scoprivamo la poesia di Pound e di Brasillach, le invettive di Céline.

 

Tradizionalisti e socialnazionali, rautiani e “avanguardoni”, pendolavamo tra partito e movimenti, rischiando cento volte la pelle per fare scudo ad Almirante (e per tenere invalicabile la linea della nostra agibilità politica). Ribelli e… obbedienti, anche per “colpa” di quei reduci della RSI che ci avevano offerto la loro cocciuta lezione di fedeltà. Finché alzammo la voce in un rotondo NO, quando il Capo ci parlò di “scontro fisico” proprio quando, invece, bussava l’urgenza di creare l’unità di una generazione in rivolta contro il vecchio mondo, una scommessa che minacciava di disintegrare il sistema.

 

Nelle vecchie Federazioni, riverniciate di colori pastello e ripulite dai ritratti del Testone, arrivavano zaffate mefitiche: flatulenze massoniche, alitare senile di vecchi ammiragli, incensi d’oltre Tevere. Vedendo le nostre barbe, qualche vecchio missino ci dava del “castrista”: comunisti, a noi che avevamo rischiato la pelle contro i katanga e gli autonomi! Intanto, gli uomini d’ordine rischiavano le coronarie e il portafogli, tutti golpe e bottega.
La nostra camicia nera si era lisa e stinta. Ormai ci andava stretta di spalle. Né destra né sinistra. Al di là della destra e della sinistra. Per quelli come me, che venivano dalla militanza dura e pura dei primi anni sessanta, non c’era gioia ad attaccare notabili e galoppini, constatando che il neo fascismo era divenuto orpello rituale ed alibi elettorale; ci faceva male ascoltare i grilli parlanti della Nuova Destra teorizzare il “mito incapacitante” delle nostre origini e offrirci lezioni di gramscismo di ritorno. Quando qualcuno ci chiamava “intellettuali” provavamo remota vergogna. Venivamo da una scuola dove faceva grado il coraggio e non la lettura. E poi, qual era il filo d’Arianna giusto per non perdersi nei meandri delle nostre bibliografie? Per dirla con Veneziani, eravamo “un fascio di Eresie”. Le avevamo provate tutte: esoterismo, ecologia, etologia, nuove scienze.

 

Mentre il sangue arrossava i marciapiedi del nostro Paese, resistemmo alla disperazione del ghetto, alla follia della ritorsione, aprendo i microfoni delle nostre radio e scrivendo canzoni. Provammo la religio dello stare assieme sotto i cieli, alti e puliti, dei Campi Hobbit.

 

Verso gli “Altri”, quelli che non abbiamo saputo salvare, troppe volte inghiottiti dalle galere e dagli obitori, non abbiamo mai ostentato la saggezza “di chi ha capito tutto”, ma offerto il rispetto doloroso e attonito che si deve a chi ha pagato un prezzo sproporzionato ad un tempo di lupi e di sciacalli, senza accorgersi che sulla pelle di questo Paese subalterno danzavano sconciamente arabi e Mossad, americani e Servizi Servizievoli.

 

Oggi tutto ciò pare lontano, alle spalle. Restano soltanto piccoli fuochi fatui di extra parlamentarismo dispersi nell’immensità di internet. Tutto il nostro spreco di ormoni e d’idee sembra essere davvero stato inutile. I partiti che contano finiscono col rispondere a sistemi soffocanti di alleanze interne e di ricatti internazionali. I partitini di area, dilaniati da ridicoli protagonismi, raccolgono percentuali elettorali risibili.
A sorpresa mi è capitato di accorgermi come questo scenario desolante sia animato dal lavoro di certe formidabili Comunità Militanti che neppure avrei immaginato potessero sopravvivere e svilupparsi. Giovani quasi sempre seri, volonterosi, disciplinati.
Osservandoli, parlando con loro, ti accorgi che – senza alcun merito da parte nostra – vorrebbero attingere alla nostra esperienza. Ci guardano con gli stessi occhi e la stessa curiosità con cui noi guardavamo i reduci della RSI.
Con la profonda, frustrante differenza che noi non abbiamo perso la guerra. Siamo stati vinti, in tempo di pace, dalla dissenteria della politichetta. Ci siamo rifugiati nell’individualismo piccolo borghese, disciolti nell’arte quotidiana del tirare a campare.
Peccato, perché, forse, nel baule da marinaio del nostro viaggio interrotto c’era ancora molto di buono da dividere.

 

Tommaso de Brabant - il Gioco del Globo